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La gioventù confusa della Coppola

Una sobria Emma Watson nell’unico fotogramma che vale il prezzo del biglietto.

Una sobria Emma Watson nell’unico fotogramma che vale il prezzo del biglietto.

Nelle sale The Bling Ring, storia vera del gruppo di giovani che fra il 2008 e il 2009 svaligiò le case dei vip

Una sceneggiatura poverissima a supporto di un prodotto che non chiarisce mai la sua vera entità. Con un solo sintetico commento si potrebbero analizzare gli ultimi due lavori della Coppola: l’ingiustamente premiato Somewhere e l’ultimo The Bling Ring. La figlia di uno dei più importanti cineasti della storia ha mostrato sin dagli esordi di sapersi muovere con sapiente leggerezza trattando temi non banali e regalandoci pellicole visivamente interessanti quali Il giardino delle vergini suicide, Marie Antoinette e Lost in translation.  Ma se il dominio di colori, la piacevole modernizzazione della storia o la capacità di fare un film esclusivamente su uno stato d’animo, avevano sorpreso per originalità e competenze mostrate, negli ultimi lavori appare palese quella volontà di arrivare ad una conclusione senza tuttavia lavorare alle fondamenta del racconto, dialoghi, avvenimenti, ciò che succede per capirci; e se con Somewhere in un certo senso dava libero sfogo alla sua fantasia descrivendo una fase della vita con interpretazione ultrapersonalistica,  la delusione è doppia in The Bling Ring che è tratto da una storia vera (e che storia!) rafforzata anche dal lungo e dettagliato articolo di  Nancy Jo Sales uscito su Vanity Fair nel marzo del 2010 (“The Suspects Wore Louboutins”) e già di per sé utile a dare avvio ad una sceneggiatura a quel punto solo da ritoccare.

La «Bling Ring» (un po’ forzatamente traducibile in “La banda dei ninnoli”) comprendeva sei ragazze della Los Angeles bene e un loro amico, coinvolti in poco più di un anno nel furto di gioielli, scarpe e svariati oggetti di valore nelle residenze di vip come Paris Hilton, Megan Fox, Lindsay Lohan e Orlando Bloom. Il valore complessivo dei beni trafugati fu stimato in più di tre milioni di dollari. Da qui partiva l’articolo di Sales, un focus su ore ed ore di interviste, approfondimenti e video, con le sporadiche voci dei protagonisti (tutti puniti con pene modeste), massima rappresentazione di una generazione ultraricca che va oltre il valore dei soldi e vuole  infilarsi sotto la pelle delle star, vivere come loro e accanto a loro. Bastava poco in fondo per tirare fuori una sceneggiatura che delineasse una storia convincente, inquadrasse la questione dal giusto punto di vista. Ma la Coppola – in parte nascosta dietro la scusa della vacuità che i ragazzi dovrebbero testimoniare – si appoggia totalmente all’articolo di Sales, finendo per tirarne fuori un prodotto semi-documentaristico che tuttavia indugia spesso su una blanda emotività dei personaggi, costruiti poco e male con la pretesa che per ognuno di loro sia una brevissima sequenza a parlare (vedi la coreografia ambigua davanti alla webcam di Marc o il ballo sfrenato di Nicki in discoteca).

Gli stessi dialoghi sono poverissimi, lontani dal realismo e molto più vicini alla scarsa fantasia. La volontà di ritrarre la generazione social network si perde troppo spesso in una favoletta priva di intoppi, volta in qualche modo a sottolineare il vuoto intellettuale ed emotivo di adolescenti sovrastati da cattivi esempi, che in alcune parti strizza l’occhio ad un altro tipo di gioventù dipinta da Larry Clark in quel capolavoro che era Bully, azzerando però i riferimenti al sesso ma accentuando gli ammiccamenti e le estensioni del corpo (esemplare il frenetico cambio d’abiti di una Emma Watson decisamente sotto le righe), quasi a specificare che ogni oggetto da loro toccato vada in quella direzione.

Pure l’eccellente fotografia (firmata Harry Savides) e la potenza visiva di alcune immagini finisce per perdersi in un uso insistito dei rallenty, a tratti pregni di una comicità involontaria causata non tanto dai protagonisti, piuttosto dal loro continuo girare a vuoto fra caratteristiche troppo vaghe e stereotipate per assumere una vera indole, la definizione di un personaggio che susciti qualcosa. E questo ci porta alla questione fondamentale: gli attori. Tralasciando Emma Watson di cui s’è già detto (ti aspetti che da un momento all’altro pronunci un “Expelliamus” e corra da Rupert Grint), tutti gli altri interpreti sono talmente poco approfonditi che risulta inadeguato ogni loro atteggiamento, ogni gesto o considerazione. L’unico che sembra rendersi conto degli errori commessi è Marc (“È evidente che l’America abbia un’attrazione malata per queste cose alla Bonnie e Clyde”), paradossalmente il più fragile, il più malleabile, mentre gli altri sono solo macchiette in un universo giovanile tutto uguale, senza eccezione neppure per quella che fu considerata la mente di ogni operazione, Rebecca (Katie Chang), adolescente impersonale che la Coppola prova a descrivere nella sua totalità tramite il rallenty durante il furto del tanto agognato Chanel numero 5.

Azzeccate le musiche, con il tocco finale di Frank Ocean e la sua “Super Rich Kids” (with Nothing but Fake Friends), scrupolosamente studiate le ambientazioni e i colori, tutto si trova però a fare i conti con una cornice imprecisa, in bilico fra dramma, documentario e racconto asettico, che tuttavia non riesce granché in nessuno dei tre generi perché non emoziona, non evidenzia dati con la perizia del giornalista né si sforza di dare una continuità narrativa alla storia.

di Marco Ciotola

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